Guardarsi l’ombelico

Guardarsi l’ombelico

Le beatitudini di cui ci parla la pagina del Vangelo di Luca per questa sesta domenica del tempo Ordinario anno C (Lc 6,20-26), ci consegnano uno dei tratti più paradossali dell’intera Scrittura: siamo messi di fronte ad una promessa di felicità piena a partire dalla descrizione della condizione di massima povertà e infelicità apparente. Gesù, nella versione di Luca che si differenzia da quella riportata al capitolo quinto del Vangelo di Matteo, sceglie una scenografia del racconto differente, ambientando il tutto non più sul monte, ma in un luogo pianeggiante; cambia anche la sceneggiatura, aggiungendo una seconda parte dove elenca una serie di guai presentati in maniera speculare rispetto all’elenco iniziale delle beatitudini.

Luca non ci offre una prospettiva dove risultano evidenziati degli atteggiamenti a partire da un determinato orientamento spirituale. Preferisce presentarci condizioni concrete e reali di infelicità: povertà, fame, pianto, odio e disprezzo. Sono coloro che vivono queste condizioni a essere considerati beati, non solo in una prospettiva futura, ma anche a partire dalla possibilità di accedere già al Regno di Dio. Il fatto di vivere una condizione di oggettiva indigenza non lascia Dio indifferente: la storia dei profeti sta a dimostrare quanto le preferenze del Signore vadano agli ultimi, a tutti coloro che sembrano essere perseguitati dalla vita; infatti, proprio i profeti, portatori di un messaggio di speranza, sono stati perseguitati, hanno pianto e sono stati costretti a vivere in povertà, ma non per questo sono stati abbandonati a loro stessi: il Signore li ha salvati e sostenuti perché potessero tornare al proprio efficace ruolo di annunciatori di speranza.

Evidentemente il Vangelo non ci sta proponendo di assumere come modello desiderabile quello della povertà materiale assoluta: non ci vuole dire che il non avere nulla per vivere sia un valore in sè. Tuttaltro. La povertà e la tristezza non sono condizioni di vita desiderabili. La loro esistenza però è un dato incontrovertibile, un dato che condiziona irrimediabilmente il vissuto di tanta, troppa parte dell’umanità. Bene, l’evangelista Luca ci annuncia che i poveri in virtù di quello che stanno vivendo nella loro esistenza, sono già destinati ad avere un piede nel Regno di Dio, così come gli affamati e coloro che si trovano nel pianto saranno destinati a essere saziati e a ridere. Che ci piaccia o no, assistiamo a un totale ribaltamento della prospettiva: a quelli che sembrano ultimi viene destinata una pienezza che passa attraverso tutto quello che non hanno potuto vivere sulla terra, ma anche attraverso la consapevolezza che nella vita si aprono sempre possibilità nuove, dove entra Dio con la sua presenza. Le beatitudini rappresentano una dichiarazione di intenti da parte di Dio che non ha alcuna intenzione di abbandonare gli ultimi al loro destino: gli ultimi sono già beati proprio in virtù di questa presa di posizione. Tutti gli altri sono messi in guardia: per loro non è detto che le cose vadano a finire allo stesso modo. Per noi, che non siamo ultimi, c’è da prendere sul serio l’elenco finale dei guai, come serio ammonimento a cambiare vita: forse non possiamo diventare poveri, ma assumere un atteggiamento da poveri questo è nelle nostre possibilità.

Proprio come i poveri che finiscono per dipendere in tutto da qualcun altro, anche noi possiamo lasciare spazio, nella nostra vita, all’idea che per iniziare a essere beati sia necessario chiedere, meglio ancora elemosinare da Dio e dai fratelli quello che da soli non possiamo darci. Sentire che ci manca qualcosa è la condizione necessaria da cui partire per aprirsi alla felicità.

I ricchi, i sazi, coloro che ridono e che sono preoccupati solo della loro immagine sono espressione di un’umanità ripiegata su di sé che trova il proprio godimento in quello che le consegna un attimo senza prospettive: siamo al di là del carpe diem di oraziana memoria, perché qui non c’è l’occasione da cogliere, ma c’è soltanto un muto avvitarsi su sé stessi. Penso non sia necessario aggiungere ulteriori parole di commento a un fatto che ha già destato più attenzione del dovuto: non mi interessa interpretare il gesto discutibile di un cantante avvenuto sul palco del festival di Sanremo; non mi stupisce che la logica mediatica porti a fagocitare ogni segno e ogni linguaggio pur di risultare ammiccante. Vorrei soltanto provare a leggere un sottotesto che mi pare essere sfuggito ai più: nella scena di un uomo che si impone il battesimo è raccolta tutta la triste e malinconica visione di un’umanità autoreferenziale che non accetta la possibilità che qualcosa le sia dato in dono.

Guai a voi, ricchi, che credete di avere già tutto e vi private della possibilità di gustare la beatitudine e la gioia di ricevere qualcosa in dono. Guai a voi, ebbri e sazi della vostra immagine, che avete perso il gusto di guardarvi attorno e che per la presunta gioia di avere tutti gli occhi su di voi, vi accontentate di guardarvi l’ombelico! Mi sembra essere questo l’ammonimento che ci viene dal brano del Vangelo e che riecheggia perfino dal palco del festival della canzone italiana.

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