Smettere di giocare alla guerra

Smettere di giocare alla guerra

Quando si riflette sul senso della vita e della pratica religiosa, soprattutto ai più giovani, viene in mente il fatto che l’esistenza del credente sia segnata principalmente da quello che non può fare: una prospettiva tutta al negativo che fa della vita di fede un cammino di privazione e mortificazione.

Un’idea grossolana e distorta che ancora segna profondamente alcuni aspetti della pastorale ci presenta i comandamenti come la sintesi di questa prospettiva, come a definire che sia necessario stabilire dei limiti certi prima di poter svolgere la navigazione in mare aperto: una contraddizione in termini che a molti giovani oggi non sfugge più.

Il Vangelo di questa settima domenica del Tempo Ordinario (Lc 6,27-38) offre una chiave di lettura completamente differente, partendo da una prospettiva che ribalta il ragionamento: colui che vuole davvero ascoltare Gesù accoglie la sfida del fare e dell’apertura piena alla vita secondo una misura che mette in discussione ogni logica di opportunità. Quello che davvero conta è il fare secondo una misura differente da quello che richiederebbe un classico ragionamento di buon senso.

Il problema, allora, se così possiamo dire, non è quello che non fai, ma ciò che fai e il modo in cui decidi di farlo: i grandi cambiamenti, le vere conversioni, anche nel cammino di fede, non dipendono mai da quello che decidiamo di smettere di fare, ma da ciò che iniziamo a fare perché mossi dall’amore. La prospettiva di Gesù è dunque totalmente attiva e propositiva: si rivolge a tutti coloro che desiderano maturare consapevolezza nell’orientare la propria vita con decisione.

Il programma proposto è alto, ma non impossibile, se iniziamo a ragionare secondo la misura che ci presenta il Vangelo: come volete che gli uomini facciano a voi, così anche voi fate a loro diventa l’espressione simbolo di qualcosa che pare impossibile a chi continua a muoversi nella logica del dare per avere qualcosa in cambio. Anche in questo caso Gesù utilizza un formula priva di negazioni, invitandoci a fare i conti con una verità sconcertante: siamo tutti mossi dal desiderio di essere amati e di vivere al meglio, perché non dovremmo riconoscere questa possibilità anche a chi incontriamo ogni giorno? Si potrebbe obiettare che è proprio da qui che iniziano tutti i distinguo, proprio perché ciascuno ha un’idea differente di amore, diventa impossibile stabilire un’unica unità di misura valida per tutti. Il Vangelo cerca di offrire una risposta a questa obiezione facendoci uscire  dalla logica della reciprocità: logica che intorbidisce le acque e genera confusione perché spesso scambiata con la realtà della fraternità.

La reciprocità si basa sulla misura classica del riconoscere a chi mi sta di fronte i diritti che lui stesso è disposto a riconoscermi. Il Vangelo parla una lingua differente e dichiara che anche il nemico che mi sta davanti ha diritto al bene esattamente come lo desidero io, un diritto che non dipende dal mio riconoscimento ma che può essere compreso dall’altro proprio a partire da come lo vede esprimersi in me.

In fondo Dio non è forse benevolo nei confronti degli ingrati e dei malvagi, cioè nei confronti di persone, e tra queste ci siamo anche noi, che non sanno riconoscere la sua misericordia? Persone che però possono imparare a vivere di questa misericordia proprio perché la vedono incarnata concretamente nelle scelte d’amore di tanti uomini e donne?

Essere misericordiosi come il Padre è una sfida in campo aperto, non è l’invito a realizzare qualcosa di impossibile, visto che nessuno di noi sarà mai come Dio, ma piuttosto l’invito a guardare con convinzione verso una meta, anche se questo comporterà la necessità di solcare l’oceano davanti a noi.

La vita per poter esprimere il meglio della propria potenzialità ha bisogno di una sfida come questa: ha soprattutto bisogno di uscire dai rigidi steccati delle contrapposizioni per riscoprire la gioia liberante di non chiedere nulla in cambio. Chi si preoccupa di dare, riceverà in cambio da Dio, l’unico davvero capace di prendere le giuste misure. Chi si preoccupa soltanto di non sbagliare, riceverà in cambio una vita a sua misura, una vita a misura del non si può fare.

Nel corso del Vangelo Gesù presenta soltanto due non in relazione al tema del giudizio e della condanna: l’unico divieto che ci viene imposto è quello che riguarda ciò che più ci mette a rischio di perdere la bussola della navigazione.

Sappiamo molto bene che è impossibile non emettere giudizi, ma sappiamo altrettanto bene che un conto è giudicare le azioni e le situazioni, un conto è fare di questo giudizio una condanna che riguarda le persone: proprio su questo Gesù ci mette in guardia, sul rischio di fare diventare definitivo qualcosa che riguarda aspetti parziali e passeggeri della vita degli altri. Nel momento in cui esprimiamo un giudizio e lo facciamo diventare condanna, torniamo a ragionare in maniera chiusa e priva di prospettiva, continuiamo a vedere soltanto nemici, lì dove potrebbero esserci amici e fratelli da scoprire, riapriamo la porta alle tante possibili guerre che rendono amaro il quotidiano. Accogliendo la sfida di ragionare fuori misura possiamo guardare allora all’attualità con un occhio che sappia cogliere quello che ancora non c’è. La notizia è di quelle che tutti sperano di sentire, anche se, al momento, non ha forma e pare soltanto una debole speranza: che ci sia risparmiata l’ennesima, inutile guerra. Proprio perché nessuno di noi è chiamato a emettere un giudizio definitivo su realtà che neppure conosce, possiamo comunque chiedere nella preghiera che due popoli che dicono di radicare la propria identità nella fede del Vangelo, sappiano rendersi audaci interpreti di una straordinaria pagina di Vangelo. Sarebbe un salutare schiaffo alla sonnacchiosa coscienza credente di tanta parte dell’Occidente.

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