Grazie, per ripartire

Grazie, per ripartire

La misura dell’ingratitudine è la norma delle nostre relazioni sociali. Da un lato quello che hai te lo sei conquistato e quello che non possiedi o te lo devi procurare o, se non puoi, ti accontenti di desiderarlo in un crescendo problematico di aspettative e illusioni: difficile che in questa dinamica alimentata da un desiderio malato possa trovare spazio un sincero sentimento di gratitudine.

La notizia della settimana è sicuramente l’inizio di una concreta possibilità di pace per la striscia di Gaza e tutti dovremmo essere grati per questa possibilità: i credenti che hanno implorato pace da più di due anni dovrebbero ora innalzare preghiere di ringraziamento; chi non crede, ugualmente, dovrebbe esprimere la propria gratitudine per il fatto che finalmente una qualche volontà di dialogo sembra aver fatto breccia nelle menti ottuse e sanguinarie di chi fino ad oggi ha pensato alle armi come unica possibilità di risoluzione del conflitto.

I popoli direttamente interessati, in particolare il popolo palestinese, hanno il diritto di esprimere i sentimenti che credono più opportuni in questo momento, ma noi, spettatori per anni inermi di questa carneficina, dopo aver desiderato la pace cosa sperimentiamo nei nostri animi?

Stupisce che di fronte alla prima vera e concreta possibilità di pace, nei dibattiti e tra i commentatori, inizino i distinguo e le analisi che valutano negativamente uno o l’altro aspetto degli accordi: certo è giusto che ognuno faccia il proprio mestiere, ma non riuscire a tornare almeno per un attimo sui propri passi e sui propri ragionamenti, per riconoscere la bontà necessaria di un passaggio come questo indispensabile a fare tacere le armi, sembra descrivere un atteggiamento già segnato dalla delusione e dal vedere non riconosciute le proprie ragioni. In questo momento la cosa principale è che la gente palestinese, soprattutto i più piccoli e innocenti, smetta di morire e che anche gli ostaggi israeliani possano trovare aiuto e conforto: ora, se ciò diventa possibile, il primo moto dell’anima dovrebbe essere quello di una profonda gratitudine.

Tutti abbiamo bisogno di purificarci in questo sentimento così poco in voga ai nostri giorni, per iniziare a impostare ragionamenti nuovi e un modo nuovo di guardare vicende così drammatiche che chiedono anche alla nostra vita di mettersi in discussione.

La XXVIII domenica del tempo ordinario, per mano dell’evangelista Luca (Lc 17,11-19), ci fa toccare proprio il tema della gratitudine e ci lascia intravedere tutta la potenza di quest’atteggiamento. Dopo aver guarito dieci lebbrosi e averli inviati al tempio per la certificazione della propria guarigione, secondo i dettami della legge, Gesù ne vede tornare indietro soltanto uno: un samaritano, uno straniero, l’unico che riconosce la fonte della propria guarigione e che ritorna sui propri passi per esprimere tutta la sua gratitudine. Il samaritano guarito non ha fretta di tornare in società, in quella società che lo aveva escluso proprio perché incapace di funzionare davvero: sente il bisogno di vivere il momento del rendimento di grazie da cui ripartire per impostare in modo differente la propria vita. Da qui la possibilità di essere salvato e non solo guarito.

Gli altri nove sono stati guariti ugualmente, ma si privano della possibilità di una vita piena proprio perché non sanno ringraziare, non sentono la necessità di farlo e soprattutto dimostrano di non riuscire a vedere da dove viene il bene che da soli non possono darsi. Hanno fretta di tornare alle  proprie vite, ma il rischio vero è che tornino a quelle stesse vite identiche di prima, vite malate e prive di prospettive.

Se non impariamo a dire grazie per il bene che abbiamo davanti agli occhi, prima di ripartire con nuovi passi, potremmo rischiare concretamente di ritornare su quelli vecchi. Senza gratitudine non si progetta una vita. Se la si progetta si rischia di pensarla molto simile a quella da cui vorremmo fuggire.

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