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Per Gesù avere l’intima presunzione di essere giusti e per questo disprezzare gli altri è un problema serio, talmente serio da richiedere l’invenzione di una parabola apposta, quella che ascoltiamo nella liturgia di questa XXX domenica del tempo ordinario (Lc 18,9-14).
L’atteggiamento del fariseo, che sale al tempio per pregare e ringraziare Dio per quello che fa, nasconde tutta la sua ipocrisia nel definirsi a partire dalla distanza che sottolinea rispetto agli altri: non essere come gli altri diventa segno distintivo delle proprie presunte qualità morali e umane, anzi diventa l’elemento da cui partire per un ringraziamento che si rivela essere, in fondo, puro autocompiacimento. A Dio non viene chiesto nulla, anzi lo stare di fronte a lui è solo un modo per parlare di sé. Un po’ quello che accade oggi nel linguaggio politico: assistiamo a continui dibattiti che partono quasi sempre dal mettere in luce il fatto che l’avversario politico è totalmente altro da sé, non differente, come giusto che sia, ma totalmente altro, appartenente alla categoria di un’umanità che non può essere condivisa. L’operazione è rozza e banale: creare un nemico da distruggere per affermare la bontà di quello che si vuole rappresentare, a scapito di un male che sta tutto nel campo avverso. L’altro non ha la mia stessa qualità antropologica e per questo motivo può essere disprezzato, peggio ancora, usato per esaltare quello che io rappresento. Programmi, confronto sulle idee, proposte, tutto viene appiattito e annullato dalla sfrenata rincorsa al plebiscito personale come unica forma di legittimazione politica: se piaccio, allora tutto quello che faccio è lecito. Questo il grande rischio di vivere nell’intima convinzione di essere nel giusto: diventare la misura della giustizia possibile. L’altro mi serve soltanto come strumento della mia esaltazione personale.
La figura del pubblicano, invece, ci presenta la realtà di un’umanità riconciliata con la propria verità. Anche lui è salito al tempio a pregare, ma il suo stare di fronte a Dio è reale: conosce la propria realtà di peccatore che condivide con tutti, ma ne riesce a sentire la fatica e il dolore in modo del tutto personale. Il suo rimanere a distanza battendosi il petto non è attestazione di una forma intimistica del vivere la fede: si tratta, piuttosto, della consapevolezza di trovarsi davvero di fronte a Dio, all’unico che può capire la profonda fragilità dell’esistenza umana. Il riconoscersi peccatore diventa il terreno comune da cui partire per aprirsi a Dio e all’altro, la dichiarazione necessaria per posizionarsi nella vita nel modo più corretto, ma anche più umano.
Il pubblicano della parabola torna a casa giustificato, cioè reso giusto. Non confermato nel proprio peccato, ma trasformato nella capacità di rispondere in modo diverso ed efficace ad esso. Il fariseo, chiuso nel proprio soliloquio rimanere uguale a se stesso, non può cambiare nulla del mondo che lo circonda, se non continuare a vedere il male negli altri senza accorgersi di quello che il male stesso sta realizzando nella sua vita.
Se la politica non riesce a prendere le distanze da un discorso che alimenta la fortuna di chi addita l’altro come il totalmente diverso da sé, troverà davvero poche giustificazioni di fronte alla storia che presenta il conto quando ci si abitua all’idea che il più forte sia sempre il migliore.
In particolare, aggiornando la parabola ai nostri tempi e alla nostra società, verrebbe da dire che la democrazia non ha bisogno di uomini perfetti per funzionare. Basterebbero uomini umili, abbastanza umili da capire che il confronto con l’avversario politico va svolto sul piano delle idee e delle pratiche e non su quello della legittimazione a essere parte di un’umanità condivisa.
Dell’umiltà del pubblicano ne ha bisogno soprattutto la chiesa se vuole continuare a parlare con verità a tutti quelli che incontra: solo l’umiltà crea le condizioni per essere davvero giustificati, per riuscire a dare conto in pienezza della propria esistenza.





