Campioni

Campioni

Che ne abbiamo consapevolezza o no, il male e il bene agiti e vissuti rimangono nella nostra vita, la segnano secondo uno stile e delle direttrici che quasi finiamo per assumere senza accorgercene. Il rischio è proprio quello di vivere respirando ciò che abbiamo attorno senza renderci conto di come questo influisca sul nostro stile di vita e il nostro modo di vedere le cose. In positivo o in negativo.

Quando Gesù al capitolo 25 del Vangelo di Matteo racconta lo straordinario affresco del giudizio finale, ci mette davanti la strana reazione dei maledetti e di coloro che risultano benedetti di fronte alle dichiarazioni del re. In entrambi i casi non si sono resi conto di quello che hanno fatto, o, meglio, si trovano disorientati rispetto all’annuncio di aver fatto del male o del bene proprio a lui, il re in persona.

Possibile che non ci si renda neppure conto a chi si stia facendo del male o del bene? Sì, se il male o il bene diventano uno stile, una pratica ricercata con costanza e quotidianità.

Vedendo il giovane Sinner vincere il suo primo torneo Atp di tennis a soli diciannove anni, mi sono chiesto quante volte avrà dovuto ripetere gli stessi gesti, rifare lo stesso movimento delle braccia per far diventare naturale ciò che ai profani sembra facile e risolutivo. Chissà quante palline avrà dovuto raccogliere da terra, prima di imparare a memoria i passi giusti per iniziare a danzare sul campo da gioco. I grandi sportivi fanno sembrare normali gesti tecnici e sforzi grandiosi, grazie al talento, ma sicuramente anche grazie all’allenamento, a quella parte del loro lavoro che diventa quotidianità vissuta.

Chi avrebbe detto, dopo il disastro delle ultime qualificazioni mondiali, che a distanza di un paio d’anni avremmo avuto una nazionale di calcio giovane, ben motivata e capace di giocare addirittura un buon calcio? Nessuno, immagino. Nessuno che non sappia quanto credere nei propri mezzi e nel raccogliere i frutti del proprio lavoro possa diventare un motore motivazionale straordinario: se ti abitui a vincere e inizi a vedere come le cose che ripeti continuamente in allenamento portano frutto, allora ti convinci di poter continuare a vincere e lo fai con estrema naturalezza. Anche la fatica dell’allenamento diventa più leggera, quasi non te ne accorgi.

Uno come Hamilton, in Formula 1, ha fatto diventare la vittoria di un mondiale una cosa normale, quasi un’abitudine per lui, ma solo per lui. Vedendolo guidare non ci si rende più neppure conto di quanto sia bravo e di tutte le cose che fa in maniera perfetta, a differenza di tanti altri. Anzi, possiamo dire che solo un suo errore ormai faccia notizia.

Immagino che anche Mir, fresco campione del Mondo della Moto GP, non avrebbe potuto raggiungere un traguardo così prestigioso, senza accorgersi giorno per giorno, di quanto questa possibilità stesse diventando concreta: l’assenza di un campione come Marquez, in seguito all’incidente riportato in uno dei primi gran premi dell’anno, non toglie nulla all’impresa di un pilota che ha saputo cogliere l’occasione perchè evidentemente abituato a riconoscerle e valorizzarle.

Limitandomi a questi esempi tratti dalla cronaca sportiva della settimana, vorrei riflettere sul fatto che ci sono realtà che appaiono naturali e vengono vissute come tali, quasi senza accorgersene, solo perchè ci si è abituati a viverle: nessuno dei campioni citati, nel momento della massima prestazione, si chiede come stia facendo le cose, le vive e basta perchè ha imparato a farle e a farle molto bene. Ci potrà poi essere il momento della valutazione, ma questo avverrà solo a gara conclusa.

Ecco il punto. Il bene perchè possa essere vissuto in pienezza ha bisogno di essere vissuto con naturalezza, quasi senza accorgersene, perchè vissuto quotidianamente. Come fare però senza allenamento? E se l’allenamento fosse sbagliato? Non c’è il pericolo altrettanto concreto di poter finire a compiere il male e abituarsi ad esso?

Il Vangelo vuole proprio ricordarci che bisogna essere disposti ad allenarsi tutti i giorni a riconoscere e realizzare quel po’ di bene che ci risulta possibile, se vogliamo diventare persone capaci di agire senza il bisogno continuo di qualche forma di riconoscimento e, proprio per questo, in grado di attraversare la nostra vita con leggerezza.

Se ci adeguiamo al male e lasciamo che tale prospettiva diventi l’orizzonte quotidiano della nostra esistenza, lasceremo cadere i nostri giorni, nella più totale inconsapevolezza, in una mediocrità banale assai pericolosa per noi stessi e per gli altri.

Questo non vuol dire che di fronte al male che ciascuno di noi compie non ci sia speranza di cambiamento: noi siamo quello che facciamo, ma non siamo mai solo ciò che facciamo.

Alla banalità del male si può rispondere solo con la banalità del bene.

Ci è sempre data la possibilità di realizzare il bene e di riconoscerlo attorno a noi per ripartire da lì. Abbiamo, però, anche la possibilità di compiere il male o di non fare nulla, che è già una forma concreta di male. Ma, mentre l’essere inconsapevoli del bene che si fa è l’esito riuscito di un buon allenamento alla vita, il non avere più consapevolezza del male che si sta generando è il segno di una rovina lenta e possibile.

Il racconto del giudizio vuole metterci in guardia da questa possibile rovina, vuole aprirci gli occhi sulla nostra vita quotidiana perchè non si lasci affossare dall’inutile ritornello «Quando, Signore? Non me ne sono accorto, non ho avuto l’occasione!», ma riscopra il gusto di un allenamento possibile al bene.

Se nello sport solo alcuni diventano campioni, nella vita tutti siamo chiamati a diventare campioni di bene, basta prendere sul serio l’allenamento e credere che questo allenamento possa plasmare le realtà più profonde della nostra vita fino a metterle in contatto con Dio, che ne abbiamo consapevolezza o no.

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