Surf

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Cosa rappresenta il distacco di Gesù dai suoi discepoli nel momento dell’Ascensione? Perché sottolineare come fa Luca, nel brano della prossima domenica (Lc 24,46-53), un distacco quasi fisico, indicando con precisione l’azione dell’essere portato in cielo, dopo che le apparizioni del risorto avevano già reso manifesta la realtà nuova vissuta da Gesù?

Non sarebbe necessario infatti sottolineare la realtà di un corpo nuovo, spirituale, da parte di chi attraverso la resurrezione ha già detto tutto della sua piena identità. Eppure Gesù sceglie questo modo così scenografico per lasciare i suoi, promettendo il dono dello Spirito, ma dichiarando in maniera esplicita di affidarli ad una missione che non vedrà più la sua presenza attraverso un corpo in carne ed ossa. É davvero così?

Sarebbe difficile dare ragione della grande gioia che trasforma i discepoli in una lode perenna a Dio, in attesa di accogliere il dono promesso, se il distacco da Gesù venisse vissuto come qualcosa di definitivo e irreversibile: Gesù non parte per un’altra dimensione, né sceglie di ritornare da dove era venuto perché stanco di frequentare una terra troppo piccola per lui. Gesù crea lo spazio necessario affinché i suoi diventino protagonisti della loro vita e della missione di portare l’annuncio del Vangelo a tutto il mondo: lo fa tracciando un percorso che ormai è definitivamente aperto e percorribile, un percorso che chiede a ogni credente di diventarne protagonista con la consapevolezza che l’esito sarà segnato da una salvezza piena, una salvezza che riguarderà l’interezza della vita in tutti i suoi aspetti. Quello che è destinato a salire in cielo, grazie alla forza dirompente dello Spirito, è l’uomo nuovo che ha capito davvero che Dio ha scelto di risanare tutta la creazione a partire dai corpi non più segnati dalla condanna del peccato. Tutta la creazione trasformata, non distrutta, è destinata alla salvezza grazie alla disponibilità di uomini che accettano di essere salvati. Gesù sale al cielo con il suo corpo per ricordarci che Dio non ha scherzato e che la materia della creazione non è destinata alla dannazione. Da questa consapevolezza nasce una missione che chiede di essere sorretta dalla presenza costante dello Spirito, destinata a portare un annuncio buono e gioioso ad un mondo ancora troppo spesso invischiato in una visione materialista bieca e senza prospettive.

Guardare al cielo non vuol dire perdere di vista la terra, anzi, nel momento in cui Gesù sale al cielo benedicendo, i discepoli si prostrano a terra, prendendo finalmente contatto con la dimensione più vera e profonda del loro vivere su questa terra: capiscono di avere una missione e che da questa missione dipende non solo la loro salvezza ma anche quella dell’intera umanità e attraverso di essa dell’intera creazione.

Stanco delle tante, troppe, notizie tristi di questi giorni, mi sono avventurato alla ricerca di qualcosa di più leggero e mi sono imbattuto nella notizia di un giovane surfista tedesco a cui è stato di recente riconosciuto il record per aver cavalcato l’onda più grande mai surfata, un frangente di 26 metri incrociato nei mari del Portogallo nell’ottobre del 2020. Un’impresa unica e straordinaria.

Trovo da sempre affascinante il mondo dei surfisti, gente in attesa di trovare il momento giusto, l’occasione da cogliere per impattare l’onda migliore, quella più alta e lunga, tanto da permettergli di volare sulle acque e raggiungere il cielo: un connubio perfetto tra abilità umana e potenza della natura, l’espressione migliore di un sodalizio possibile tra tecnica e irresistibile energia naturale. L’idea di un’onda gigante che in sé esprime la forza di qualcosa che non può essere controllato, ma che può essere messo a servizio di una volontà decisa ma non usurpatrice, lascia trasparire l’immagine di un’umanità che si può riconciliare con la natura, imparando a servirsene rispettandola.

Un giovane che cavalca un’onda tanto grande da toccare il cielo può diventare simbolo di quanto la solennità dell’Ascensione ci vuole consegnare: per salire al cielo e tornare a Dio, abbiamo bisogno della forza dello Spirito che ci sostiene, di sentirci parte di un tutto di cui intuiamo la forza ma che non possiamo certo controllare. Abbiamo bisogno di una tavola su cui poggiare i piedi che ci ricordi sempre la nostra realtà umana fatta di cose concrete da cui partire, ma che può diventare il trampolino di lancio per raggiungere altezze inaspettate; abbiamo bisogno di sentirci abili e capaci ma allo stesso tempo di sentire che siamo piccoli e fragili di fronte alla grandezza e alla potenza di Dio, di sentire che c’è un attimo in cui finalmente possiamo dire a noi stessi che stiamo davvero nel posto giusto e nel momento giusto. L’attimo in cui capire che sta passando l’onda che ci porterà fino al cielo è quello in cui rispondere positivamente alla nostra chiamata e alla nostra vocazione.

Da questo dipende la nostra felicità: dove un cristiano risponde con la propria vita alla volontà di Dio lì si realizza anche un pezzo di salvezza concreta per questo mondo. Non dobbiamo avere paura di cavalcare l’onda potente dello Spirito perché Gesù, prima di andarsene, ci ha fatto sapere con esattezza come fare per surfare fino al cielo.

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