Quale voce? – Gv 10,1-10

Quale voce? – Gv 10,1-10

In quel tempo, Gesù disse: «In verità, in verità io vi dico: chi non entra nel recinto delle pecore dalla porta, ma vi sale da un’altra parte, è un ladro e un brigante. Chi invece entra dalla porta, è pastore delle pecore. Il guardiano gli apre e le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore, ciascuna per nome, e le conduce fuori. E quando ha spinto fuori tutte le sue pecore, cammina davanti a esse, e le pecore lo seguono perché conoscono la sua voce. Un estraneo invece non lo seguiranno, ma fuggiranno via da lui, perché non conoscono la voce degli estranei».
Gesù disse loro questa similitudine, ma essi non capirono di che cosa parlava loro.
Allora Gesù disse loro di nuovo: «In verità, in verità io vi dico: io sono la porta delle pecore. Tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti; ma le pecore non li hanno ascoltati. Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo. Il ladro non viene se non per rubare, uccidere e distruggere; io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza».

Tra le tante immagini che il vangelo propone ce n’è una che crea una certa resistenza in me: quella che vuole associare me, fedele, a una pecora. Complice è sicuramente la lingua italiana, che associa questo animale a coloro che non ragionano con la propria testa, disposti a seguire in maniera ubbidiente e acritica qualunque leader. Insomma, i cosiddetti “pecoroni”.

Quindi ho fatto sempre un po’ di fatica a mandar giù questa associazione: non ho molta voglia, visceralmente, di essere chiamato “pecora”. Eppure nel vangelo di oggi il termine “pecora” non è dispregiativo. Esso non denota i “pecoroni”, i creduloni, ma, esattamente al contrario, coloro che sono capaci di “conoscere la voce” del vero pastore. Ed era effettivamente una cosa importante, questa, in passato. Capitava spesso che diversi greggi si confondessero, pascolando nello stesso territorio. I pastori, allora, dovevano essere stati bravi a insegnare alle proprie pecore un richiamo unico, diverso da quello degli altri. E le pecore dovevano essere brave a riconoscere quel richiamo: a quel fischio, a quella voce specifica – quella del proprio pastore – le pecore si radunavano, senza confondersi con le altre.

Darci delle pecore, quindi, non significa darci dei creduloni, ma, al contrario, dirci che siamo capaci di fare discernimento, cioè di scorgere, in mezzo alla assordante cacofonia quotidiana, la voce liberante, che porta vita: la voce di Dio. Mica facile! Però, essendo pecore, ne siamo capaci. Più che pecoroni, quindi, mi piace pensare che il vangelo ci voglia “pecore nere”, capaci di ascoltare con attenzione, con spirito critico, con responsabilità, il mare di informazioni (vere o “fake”) nel quale navighiamo ogni giorno.

Allora l’invito non è quello di chiudersi in posizioni difensive, arroccarsi per custodire chissà quale tradizione intoccabile… no, l’invito – gioioso, sempre giovane – è quello di avere il coraggio del silenzio, di fermarsi, di respirare e ascoltare con attenzione la Parola di Dio, la sua voce dentro di Dio. E poi di avere il coraggio di seguirla, verso la novità perpetua che è il vangelo.

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