Coinvolgersi – Lc 7,31-35

Coinvolgersi – Lc 7,31-35

In quel tempo, il Signore disse:
«A chi posso paragonare la gente di questa generazione? A chi è simile? È simile a bambini che, seduti in piazza, gridano gli uni agli altri così:
“Vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato,
abbiamo cantato un lamento e non avete pianto!”.
È venuto infatti Giovanni il Battista, che non mangia pane e non beve vino, e voi dite: “È indemoniato”. È venuto il Figlio dell’uomo, che mangia e beve, e voi dite: “Ecco un mangione e un beone, un amico di pubblicani e di peccatori!”.
Ma la Sapienza è stata riconosciuta giusta da tutti i suoi figli».

Il vangelo, oggi mi lascia spiazzato e inquieto. Mi dice che la fede può essere interpretata come un catenaccio alla porta. Le nostre verità profonde e i nostri valori possono non avere una valenza liberante e vivificante, ma, al contrario, possono essere distorti e divenire chiusure.

Il vangelo di oggi mi chiede in che modo credo. Insinua un dubbio: la mia fede mi fa stare al sicuro? Mi posiziona in un punto un po’ sopraelevato, mi fa godere di una certa superiorità rispetto a ciò che accade? Mi immunizza dalla fatica della realtà?

Dico la verità: quando non giocavo a calcio da bambino era esattamente per questo. Non ero mai stato tanto bravo e non volevo mettermi in ridicolo, perché era più comodo e rassicurante guardare la partita (e magari criticare gli altri) a bordocampo.

Il vangelo di oggi suggerisce una cosa. Lo fa sottovoce, ma è una roba grossa: la fede non è un catenaccio, ma un fermaporta, uno di quei piccoli aggeggi di legno o di plastica che servono per tenere gli usci aperti quando c’è corrente. La fede, nel suo nucleo pulsante, è motore di libertà, spinge al rischio, al coinvolgimento, a donare sé stessi.

Così, «ballare e piangere» di fronte alla gioia o al pianto degli altri diviene un segno importante: significa empatia e partecipazione. Significa solidarietà.

Il vangelo di oggi ci interroga tutti: quanto il nostro rapporto con Dio ci spinge alla carità che entra nella solitudine degli altri e ci fa essere promotori di umanità?

Ma ci dice anche che, proprio come «bambini» che non hanno molte incombenze, per vivere questa dimensione non servono grandi cose: basta concentrarsi sulle nostre piccole agende e relazioni quotidiane.

Divenire «figli della sapienza» comporta rischiare di divenire ridicoli per amore degli altri.

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