Uscire di scena

Uscire di scena

Nel brano che ascolteremo domenica prossima, seconda del Tempo Ordinario (Gv 1,35-42), Giovanni Battista fa qualcosa di eroico che ci restituisce la dimensione più compiuta e felice della realtà umana: vedendo passare Gesù lo riconosce come incarnazione della presenza di Dio, il segno di una salvezza attesa e sperata, che non esita a indicare ai suoi discepoli perché lo seguano. Chi oggi, avendo a disposizione una qualche forma di influenza e potere su qualcuno, sarebbe disposto a perderla pur di vedere il proprio discepolo felice, realizzato e salvo dietro a qualcun altro?

Ci pensate ai tanti influencer di oggi, disposti a dire: «Basta, seguite qualcun altro che è molto meglio di me, che dice cose molto più intelligenti di me, che sicuramente vi aiuterà a diventare quello che è fondamentale che diventiate!»? Chi sarebbe disposto a mettersi da parte pur di permettere a qualcuno di avere lo spazio necessario per crescere, affidando la propria vita a un maestro vero, capace, fin da subito, di porre la domanda giusta?

Giovanni sa sfilarsi al tempo opportuno, realizza quel passaggio di consegna che non è specifico soltanto della dimensione testimoniale della fede, ma che dovrebbe esserlo di ogni esistenza matura e riuscita: lasciare intravedere il meglio e il bene possibile oltre di sé, al di là del proprio io, e indicarlo con coraggio a chi viene dietro di noi. Saper indicare che esiste un bene visibile, concreto, tangibile che passa sulla strada di ogni tempo e di ogni situazione e saper riconoscere che questo bene trascende la nostra esistenza fa di ogni vita qualcosa di bello e compiuto, una parte di quello stesso bene che è capace di indicare.

Nella domanda di Gesù e nell’invito rivolto ai discepoli c’è la conferma dell’intuizione avuta da Giovanni: «che cosa cercate?». É forse una delle domande più belle e profonde dell’intero Vangelo, una domanda che mette immediatamente in movimento il desiderio e la voglia di pienezza di chi l’ascolta, la necessità di avere un luogo dove prendere dimora, cioè casa.

Tutti cerchiamo una casa dove abitare e non importa se si tratta di una casa fatta di quattro stracci e una lamiera o di una villa con piscina, perché quello che davvero importa è che sia la dimensione del senso a connotarla: cerchiamo qualcuno che ci convinca davvero che la nostra vita è il luogo da abitare con gioia e pienezza, quel luogo in cui poter rientrare davvero in noi stessi.

Benedetti quei genitori che lasciano intendere ai figli, giorno dopo giorno, che c’è una vita da gustare oltre le quattro mura di casa; benedetti quegli insegnanti che sanno stimolare nei propri alunni il gusto per la ricerca; benedetti quei professori universitari che godono dell’intima convinzione che molti dei propri studenti saranno professori migliori di loro; benedetti tutti quei lavoratori che, convinti di stare facendo qualcosa di importante per sé e per gli altri, sanno trasmettere il senso profondo del proprio lavoro e benedetti tutti quegli educatori che sentono di accompagnare i più giovani verso un cammino di crescita che li renderà uomini molto migliori di quello che sono stati loro.

In fondo ogni credente, nell’invito a dimorare presso il Signore, dovrebbe sentire il gusto di una possibilità che si rende concreta solo se condivisa. Il cammino verso la santità non è mai un cammino individuale, perché si realizza sempre dentro a un cammino di Chiesa e di comunità, nel desiderio profondo di rendere condivisibile tutto quello che si è scoperto e che si è imparato a gustare.

Proprio perché si sono fidati e sono andati a vedere, i primi due discepoli diventano a loro volta tramite perché altri possano incontrare Gesù: la vita è trasmissione, è consegna fiduciosa. Il gesto eroico di Giovanni genera emulazione perché davvero profetico e credibile. Si dà senso all’esistenza uscendo da sé e accettando che Dio si manifesti come possibilità concreta di bene al di fuori di una presunta realizzazione piena di noi stessi che risulta soltanto un’utopia dannosa.

Il brano inizia con il fissare lo sguardo di Giovanni su Gesù, azione che ci ricorda la capacità dell’uomo di vedere oltre se stesso e si conclude con il fissare lo sguardo di Gesù su Simone, azione che sintetizza il desiderio di Dio di offrire un compimento alla vita dell’uomo che lo cerca davvero. Tutto però ha inizio da quel gesto eroico di Giovanni, dal suo farsi da parte, un gesto possibile soltanto a chi ha già fatto esperienza del fatto che la vita è molto più grande di noi e che soltanto Dio ne può conoscere le vere dimensioni.

Ho l’impressione che molti personaggi pubblici, se sapessero riconoscere tutto lo spessore umano e divino che può esserci dietro all’uscire di scena, da molti sarebbero ricordati come un segno prodigioso del passaggio di Dio su questa terra.

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