Fico!

Fico!

Non siamo migliori, né di chi ci ha preceduto, né di chi verrà dopo di noi. Amara considerazione, ma i fatti di questi giorni lo confermano continuamente: non mi riferisco solo alla guerra in Ucraina,  ma anche alle tragiche notizie di cronaca che parlano di figli che uccidono i genitori e altre disgrazie del genere, cose su cui sarebbe troppo triste e doloroso soffermarsi ulteriormente.

Il male, quello voluto ma anche quello subito che entra nelle vite delle persone in maniera subdola, fa parte della condizione umana e il brano di questa terza domenica di Quaresima anno C (Lc 13.1-9) sembra ricordarcelo: Gesù prende spunto da due fatti di cronaca – uno riguardante la Galilea, terra di confine abitata da pagani senza Dio, l’altro ambientato a Gerusalemme e frutto della più pura casualità – per mettere davanti agli occhi e al cuore di chi lo sta ascoltando la realtà del male che rimane un mistero inestricabile.

Pochi di noi, anche solo cinque anni fa, avrebbero creduto possibile che il nostro mondo evoluto, civilizzato, tecnologico e democratico, avrebbe avuto a che fare con pandemie e guerre, proprio come nei secoli passati. Invece siamo qui, costretti dall’evidenza, ad ammettere che la condizione dell’umanità non sembra essere poi così mutata.

Certo sarebbe stupido e disonesto non riconoscere i tanti cambiamenti anche positivi che ci sono stati rispetto al passato, ma il monito di Gesù risuona in tutta la sua attualità e drammaticità: «perirete tutti allo stesso modo», come a dire che il destino definitivo di ciascuno è segnato comunque dallo stesso inevitabile esito, più o meno doloroso, più o meno improvviso, ma comunque sempre lo stesso.

Se il discorso si chiudesse qui ci sarebbe davvero poco da aggiungere: avrebbero ragione tutti coloro che invitano a godersi la vita senza troppe complicazioni, oppure, all’opposto, coloro che la vita la dipingono come un susseguirsi di cose senza senso, affidata puramente al caso. Proprio su questo, però, Gesù ha da obiettare qualcosa: la totale inconsapevolezza del vivere e la irresponsabilità di fronte agli eventi, ma anche di fronte alla propria quotidianità, è ciò che trasforma la vita in qualcosa dall’esito scontato. Ci viene offerta la possibilità della conversione come strumento decisivo per cambiare direzione, l’unico strumento valido in ogni tempo e per ogni condizione di vita: troppo preoccupati e spaventati da un destino che pare imprescindibile, rischiamo di dimenticare di vivere; la conversione, invece, riattiva il desiderio, la speranza, il cambiamento. 

Sorretti dall’intima convinzione che è sempre possibile iniziare un nuovo percorso, che è ancora possibile vivere in pace, allacciare rapporti di fraternità, rimediare al male compiuto, ci svegliamo dal torpore dell’abitudine per riscoprirci popolo in cammino, gente che vive e non morti che camminano.

«No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo»: siamo tutti uguali e destinati alla stessa fine, ma il no di Gesù ci offre una sveglia poderosa, invitandoci a credere che se siamo tutti destinati a perire allo stesso modo, non tutti però dobbiamo vivere allo stesso modo!

Lo spazio per la conversione è quanto Dio stesso continua a metterci a disposizione perché possiamo accorgerci di essere vivi. La parabola del fico, racconta di un albero che non porta frutti, un albero che solitamente, invece, pur trovandosi ai margini della vigna, chiede poche attenzioni e produce tanto. Un fico così andrebbe tagliato subito, perché inutile e facilmente rimpiazzabile: la pazienza del vignaiolo crede oltre ogni evidenza, investendo forza e lavoro su una pianta che non li merita.

Quando parliamo di conversione, non intendiamo mai qualcosa di generico che si realizza a partire dallo sforzo volontaristico di chi la mette in atto: questa non è la conversione del fico. Il fico della parabola racconta del lavoro di una Parola che dissoda, concima, alimenta. Ogni autentica conversione parte da qui, cioè dall’accogliere tutto quel lavoro che Gesù fa continuamente su ciascuno di noi, perché finalmente accettiamo di prendere sul serio la possibilità di vivere quello che siamo chiamati a essere: portatori di frutto.

Non è un caso che la più antica e sana tradizione spirituale continui a parlare dei frutti della conversione: soltanto questi frutti restituiscono l’umanità alla verità della propria specifica missione. Vivere davvero per non morire tutti allo stesso modo, o meglio, imparare a vivere per saper morire alla maniera di Gesù. L’anno del vignaiolo si dilata a dismisura di fronte alla storia, alla mia vita, alla vita di un povero fico che destinato a produrre frutti, non ha ancora capito come fare.

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