L’armadio

L’armadio

Tragiche e macabre scoperte di cronaca ogni tanto fanno capolino sui principali giornali per poi tornare nel dimenticatoio, senza suscitare particolari riflessioni, anzi lasciando un senso di fastidio che viene eliminato con l’antico e tranquillizante adagio: queste cose sono sempre accadute!

Il ritrovamento di una anziana donna mummificata dentro all’armadio di un appartamento della periferia milanese, sembra ricalcare la sceneggiatura di un qualche film tragicomico, se si pensa essere avvenuto in conseguenza della morte della figlia, occorsa soltanto alcuni giorni fa.

Dai primi accertamente sembra che la donna sessantaquattrenne avesse nascosto il cadavere dell’anziana madre, ormai morta da mesi, per continuare a percepirene la pensione. Qualcuno, però, ipotizza anche che la donna, sola e vessata da un evidente disturbo mentale, non sia stata in grado di separarsi dall’unica persona con la quale avesse una relazione d’affetto stabile. Comunque sia, si tratta di una storia drammatica di solitudine, abbandono e morte. Una di quelle storie purtoppo sempre più frequenti nelle nostre complesse realtà cittadine, dove una persona può sparire per mesi senza destare l’attenzione di nessuno, senza diventare motivo di pianto per qualcuno.

Nel dramma della solitudine estrema non resta che chiudere tutto dentro a un armadio, nascondere perfino la morte, visto che tanto non interessa, visto che tanto sembra soltanto che quello che abbiamo da esporre e che non piace a noi per primi, sia motivo di disgusto e di non accettazione da parte degli altri. Quanto tempo della nostra vita passiamo a nascondere cose dentro all’armadio: cerchiamo di apparire meglio di quello che siamo e nascondiamo perfino a noi stessi le cose che ci fanno male e che riteniamo indegne. Pensiamo così di ricavarne qualche vantaggio, magari una piccola pensione che ci garantisca di sopravvivere, ma a che prezzo. Pensiamo in questo modo di riuscire ad anestetizzare la nostra vita: se nacondo ciò che potrebbe dare fastidio agli altri, potrei diventare più accettabile, quantomeno potrei riuscire a trovare un modo per continuare la mia esistenza senza troppi traumi.

Può sembrare un’espressione un po’ forte, ma non mi sembra che la donna al centro di questa tragica storia sia molto lontana dalla vita di tanti che pensano di poter continuare a nascondere a sé stessi quello che non riescono ad accettare o che non sono capaci di lasciare andare parti della propria vita ormai segnate dalla morte: la morte deve essere lasciata passare altrimenti, se si ha la pretesa di controllarla prende sempre più piede e diventa l’unica padrona della nostra vita, in tutte le sue tristi e variegate forme.

Nel toccante racconto della chiamata alla vita del defunto Lazzaro (Gv 11,1-45), brano presentato in questa V domenica di Quaresima anno A, Gesù piange per l’amico morto e sa raccogliere il pianto delle due sorelle che lo vanno a cercare per affidare a lui tutto il proprio dolore. Al centro del racconto ci sono relazioni di amore e la preghiera che introduce il miracolo, rivolta da Gesù al Padre, è espressione di una relazione viva e vera che non può essere spezzata neppure davanti alla morte. Gesù sa che sarà ascoltato ed esaudito perché amato, ma vuole che anche chi lo vede capisca quale sia la via da seguire per non soccombere di fronte alla morte. Non si anestetizza il dolore raccogliendo nell’armadio ciò che genera dolore e neppure ciò che di questo dolore diventa il simbolo e il ricordo.

«Lazzaro, vieni fuori!» è il grido che Gesù rivolge ad ogni uomo perché si risvegli e non si lasci ingannare dal soporifero torpore della morte.

Di fronte a questo grido d’amore dobbiamo capire che per Dio non c’è nulla di così indegno da non poter essere accolto e trasformato. Dovremmo sperimentare una tale commozione da sentire l’irrefrenabile desiderio di spalancare tutte le ante degli armadi di casa per affidare a lui tutto quello che cerchiamo di tenere nascosto. L’unico davvero disposto a guardarci per quello che siamo, ad accogliere il puzzo della morte che ci portiamo dietro senza storcere il naso, è anche l’unico che è disposto a credere in noi e a liberarci dalle bende che ci immobilizzano e dal sudario che rende irriconoscibile il nostro volto. Gesù ci vuole liberi e ci restituisce la nostra identità perché continuiamo a camminare cambiando prospettiva. Chi crede nella resurrezione non può vivere da morto e non può abbandonarsi a strategie di sopravvivenza.

Dove continuiamo a mettere massi che chiudono sepolcri, lasciando che nella nostra vita si aggiunga cancrena a cancrena, Gesù chiede di aprire perché entri la sua aria, affinché le sue parole possano convincerci ad uscire dai buchi di morte dentro ai quali continuiamo a caccirci con le nostre stesse mani. Non importa cosa abbiamo messo dentro all’armadio, tanto tutti abbiamo degli scheletri che vogliamo nascondere per paura del giudizio degli altri. Non importa, se abbiamo finalmente capito con chi abbiamo a che fare: l’unico che prenda sul serio anche le parti peggiori di noi, l’unico che davvero non ci chieda di mentire a noi stessi e di nascondere le parti malate che ci portiamo dietro. L’unico disposto a guarire tutta la nostra esistenza: dobbiamo smettere di cacciare cose e persone dentro all’armadio e capire che finalmente c’è qualcuno che ci chiama ad uscire, perché, in realtà, dentro a quell’armadio stiamo cacciando un po’ alla volta tutta la nostra vita.

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