Dubbi nel fango

Dubbi nel fango

Il dubbio fa parte dell’esperienza di fede. Può sembrare paradossale e contraddittorio ma il dubitare sembra essere condizione che accompagna la vita della Chiesa fin dalla sua origine: gli undici vanno in Galilea sul monte (Mt 28,16-20, Ascensione del Signore anno A), fidandosi dell’annuncio che è stato fatto loro dalle donne, eppure, di fronte a Gesù che si manifesta come il Risorto, si prostrano in adorazione ma dubitano. Riconoscono immediatamente la presenza del maestro ma fanno fatica a credere che proprio lui li abbia voluti lì, dopo il tradiemento, la fuga e la paura. Dubitano di loro stessi, dei propri sensi e della propria fede. In fondo fanno fatica a rivisitare la propria storia e ad ammettere a loro stessi che le promesse di Gesù fossero vere fin dal principio.

Averli invitati a ritornare in Galilea dove tutto aveva avuto origine, nella storia del legame di fede con lui, è l’ultimo straordinario colpo di teatro del Signore Gesù che ora è sicuro di poterli affidare alla loro stessa capacità di interpretare quanto vissuto insieme. La resurrezione diventa la chiave di lettura attraverso cui poter leggere il passato ma anche il presente: lo Spirito offre la possibilità di una rilettura costante del vissuto e si fa compagno di viaggio nel sostenere le fatiche e i limiti di ciascuno.

Anche noi siamo immersi nella resurrezione del Cristo e, proprio per questo, veniamo invitati a fare lo stesso cammino di rilettura continua delle nostre esperienze a partire proprio dall’invito a fare ritorno nelle nostre Galilee. Anche noi, nonostante i nostri dubbi e le nostre fragilità, siamo accompagnati per sempre dalla presenza dello Spirito. Anche noi possiamo, proprio perché affidati a questo dono, imparare a leggere la nostra storia in modo diverso: non più sulla base dei continui fallimenti che ci costringono ad acquisire una visione vittimistica della vita, dove quello che conta è sempre e comunque leccarsi le ferite. Ora anche noi siamo consegnati ad una missione straordinaria e grande, quella di portare a tutti i popoli il suo nome, la sua benedizione e il suo insegnamento.

Abbiamo dubbi e siamo incompleti, manchiamo di qualcosa, proprio come gli undici, eppure veniamo investiti dalla forza prorompente della sua fiducia: nonostante tutto siamo degni della missione grandiosa che ci viene affidata. Vivere all’altezza di questa missione, non chiede investimenti, anzi, al contrario di ogni logica, mette in moto un meccanismo virtuoso che genera ricchezza. Cresciamo in fiducia e stima nei confronti della vita, aumentiamo in speranza verso il futuro, generiamo anticorpi contro le avversità del presente.

Sapere di avere una missione unica da compiere, una missione da cui dipende la salvezza del mondo non ci può lasciare bloccati sulle cose che non vanno e non ci può neppure tenere fissi sui problemi che possono nascere dai nostri dubbi, per quanto legittimi.

Guardiamo le immagini drammatiche di questi giorni provenienti delle alluvioni dell’Emilia-Romagna e i dubbi si intensificano, come di fronte ad ogni catastrofe: come si fa a dire che il Signore risorto è con noi fino alla fine del mondo? L’evidenza dei fatti sembrerebbe affermare il contrario e sembrerebbe dare credito alle insinuazioni di chi non perde occasione per affermare l’inutilità della speranza cristiana.

Di fronte alle catastrofi naturali il nostro modello di riferimento per affermare la misura della qualità di una vita è sempre messo in crisi, perché è un modello sbagliato in partenza, un modello che guarda al presente senza alcuna capacità di prospettiva: un modello manicheo e magico dove quello che ci pare andare bene risulta essere segno di benedizione, mentre il male subito viene letto come segno dell’accanirsi della fortuna se non proprio della totale assenza di Dio.

Quando siamo toccati da catastrofi di questo genere la subdola convinzione di essere gli unici a vivere perseguitati dalla sfortuna o baciati in fronte dalla sorte per merito delle nostre qualità, viene messa violentemente in scacco: il male è presente e segna nelle sue forme la vita di ogni uomo e di ogni donna. Nella solidarietà di fronte al male subito, come tragedia degli eventi, si esce dal fango solo sentendo la vita ancora più amabile e iniziando a chiedersi quanto la nostra fragilità abbia  davvero bisogno di essere rispettata, accolta e accudita.

Proprio perché fragili e abitati dal dubbio abbiamo bisogno di sentirci ripetere che lui è con noi fino alla fine del mondo.

Abbiamo bisogno di sentirlo gridare anche sotto a metri d’acqua e fango, anche nella tragedia di montagne che franano, soprattutto dove l’evidenza dice che tutto sembra essere perduto e che la fine del mondo pare affacciarsi. Lì non viene meno la promessa, lì non viene meno la parola che ci invita alla missione di annunciare che dove l’uomo viene salvato anche la terra può essere risanata.

Credere a questa missione ci fa solidali nella sofferenza, capaci di condividere gli effetti del male senza soccombere al presente, guardando al futuro con la speranza che si trasforma immediatamente in progetti concreti: l’Ascensione che tante persone e tante comunità sono chiamate oggi a celebrare è una risalita dal fango che ha bisogno di essere sostenuta dalla speranza di tutti, anche di chi continua avere dei dubbi.

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