Ammalarsi di ascolto (per diventare sani)
L’ascolto guarisce, quando lo si vive e sperimenta con sincerità ricrea legami e genera fraternità: non sorprende che il Vangelo di questa XXIII domenica del Tempo Ordinario anno A (Mt 18,15-20) insista proprio su questa parola e sulla dinamica della riconciliazione che non può realizzarsi se non a partire dall’esperienza dell’ascolto. La comunità stessa, evocata come istanza ultima a cui sottoporre casi di dissidio e frattura interna tra i suoi componenti, si struttura proprio come ambito di esercizio di questo ascolto che non si limita soltanto, in maniera passiva, a offrire uno spazio per accogliere eventuali discussioni, ma chiede di essere riconosciuto come la possibilità ultima che ci viene offerta per dimostrarci capaci di ascolto.
Quando subiamo un torto, che sia una palese ingiustizia o qualcosa percepita come tale, abbiamo la tendenza a protestare con forza: la nostra protesta chiede di essere accolta e trasformata in giudizio a nostro favore. Se nessuno l’ascolta, allora ci chiudiamo in un silenzio sdegnato e di protesta, un silenzio che, esattamente come un grido, pretende di essere accolto da qualcuno.
Difficilmente ci poniamo nella prospettiva del Vangelo che ci invita a fare nostra la legge di gradualità che è alla base dell’ascolto: proprio per questo, oggi, ci stiamo tutti ammalando di una forma insana di chiusura che ci porta a credere che nessuno sia disposto ad ascoltarci, dimenticando che ogni relazione vera richiede sempre la reciprocità e, nella prospettiva di fede, al limite, la disponibilità alla più totale gratuità.
Chi si chiude alla possibilità dell’ascolto calmo e pacato, si esclude dalla comunità; chi non accetta la possibilità di avere sbagliato e di essere corretto finisce per diventare estraneo a se stesso e al gusto per le relazioni veramente umane. Tuttavia possiamo anche dire che il non essere disponibili al dialogo, il non coltivare a livello personale e comunitario una vera disponibilità, genera comunità chiuse che non sono segno di speranza, ma che anzi, diventano la prima e più manifesta negazione di quello che dovrebbero testimoniare. L’invito del Vangelo a trattare come un pagano o un pubblicano il fratello o la sorella che non vogliono ascoltare non è indirizzato a generare un sentimento di odio ed esclusione. La nostra società, per debolezza, cerca di escludere e limitare chi sbaglia e chi non vuole ascoltare, cerca di nascondere dietro ad un’apparente maschera di forza l’incapacità di creare spazi di dialogo: l’avere inasprito le pene nei confronti dei minori che delinquono e che commettono reati efferati, non mi pare un segno di responsabilità e non mi sembra vada nella direzione di ricreare legami sociali più credibili e giusti. Si prende la via diretta della repressione perché non si è più capaci di pensare vie nuove all’educazione, che, come sempre, chiede tempo e investimenti a perdere. La tutela della sicurezza delle persone non può mai essere ridotta solo a una questione di ordine pubblico e il creare separazioni e allontanamenti coatti, non potrà che generare sempre più risentimento e divisione. Quando il Vangelo parla di considerare chi non ascolta come un pagano o un pubblicano, certo afferma che queste persone, per il momento, si pongono al di fuori di una logica comunitaria, ma che debbono rimanere sempre destinatari dell’annuncio di salvezza che è soprattutto per loro. A chi si rivolge Gesù se non ai peccatori e a i pagani, a tutti coloro che sono ai margini e che vengono esclusi per ragioni religiose o sociali?
Come il suo maestro, allora, la comunità dei credenti non può ragionare per esclusione, ma anzi, proprio perché allenata al dialogo, dovrà diventare sempre più capace di rimanere aperta nei confronti di tutti coloro che sbagliano e si allontanano. Dovrà sempre rimanere attiva nel cercare nuove strategie e possibilità per riallacciare relazioni interrotte, storie di vita andate in frantumi, percorsi esistenziali bloccati dal vuoto delle parole. Questo è un compito a cui le comunità cristiane non possono rinunciare: anzi, con forza hanno il dovere di essere un segno per questa nostra società sempre più incapace di guardare con speranza alle nuove generazioni. Per essere segno non è necessario essere maggioranza: basta credere davvero che dove due o tre si riuniscono nel nome del Signore, lì è presente il Dio dell’ascolto, il Dio che dona salvezza perché non può non ascoltare il grido vero di chi cerca salvezza per sé e per gli altri.