Servire

Servire

Da vecchio appassionato e tifoso di tennis mi sento di poter prendere spunto dalle vittorie di Jannik Sinner senza dovermi giustificare del fatto di essermi lasciato influenzare dalla consueta smania italica di salire sul carro del vincitore. Tra l’altro, non mi interessa neppure celebrare i pur meritori successi sportivi, ma prendere spunto dalla decisione di non andare ospite al festival di Sanremo. Il giovane campione ha argomentato il rifiuto con la sua consueta schiettezza: «Sono un tennista, non so cantare né ballare, quindi il palco non è il mio posto e devo tornare ad allenarmi», queste più o meno le parole utilizzate. Niente di eroico o di particolarmente meritorio, soltanto la trasparente consapevolezza di essere al posto giusto quando fai al meglio quello che sai fare.

Resistere alla tendenza di apparire, anche se la vita ti sta già concedendo non poca visibilità, è decisamente in contrasto con l’attuale logica di ricercare costantemente il successo per il successo come forma di affermazione totale che si alimenta da sé.

Un semplicissimo rifiuto ci ricorda che il successo in qualche campo non ti abilita a diventare maestro di vita o uomo adatto a tutte le stagioni e che la soddisfazione vera che puoi sperimentare nella vita proviene da quello che sai fare al meglio e non da quanto sai vendere la tua immagine.

Il vangelo della V domenica del tempo Ordinario, anno B (Mc 1,29-39), ci parla proprio di un Gesù che si sottrae alla logica del successo per dare pieno compimento alla propria esistenza nel fare quello a cui è stato chiamato: predicare l’arrivo del Regno di Dio scacciando il male dall’esistenza degli uomini. Gesù trova la propria gioia nel coltivare la relazione con il Padre attraverso la preghiera: sa che il suo personale campo di allenamento è quello del deserto dove diventa possibile curare nei minimi particolari lo schema di gioco che dovrà adottare nella partita della propria missione.

Non è interessato agli applausi, soprattutto sa molto bene che la gente lo cerca per avere qualche vantaggio, per celebrarlo come guaritore e come feticcio da osannare in attesa di trovarne un altro che possa offrire qualche vantaggio migliore, anche solo qualcuno che la illumini di riflesso con la luce del proprio successo. Per Gesù è molto più importante essere fedele alla propria missione, sa che fino a quando ci sarà qualcuno a cui non è arrivato l’annuncio del Regno lui dovrà andare altrove.

Il segreto di una vita piena pare proprio essere in questa corrispondenza tra quello che si è scelto e quello che si sta realizzando: cercare la felicità nella convinzione di poterla trovare dappertutto pare un’illusione che si nutre delle fantasie di un falso successo.

Avere a disposizione molti canali di comunicazione ha fatto credere un po’ a tutti che basta informarsi per diventare esperti di qualcosa; peggio ancora, si è innestata la convinzione che non servono le competenze, basta avere qualcuno che ti segue e ti dà credito per vedere riconosciuto il tuo ruolo. Questo però non basta a sentirsi felici e realizzati, anzi alla lunga crea solo uno stato di confusione che porta a perdere il contatto con la propria identità.

Quello che fa sentire realizzati non è la convinzione di poter fare qualsiasi cosa, ma la certezza di trovarsi al posto giusto nel fare quello che si è scelto con fatica e passione.

Per arrivare a tutto questo dobbiamo essere liberati dalla febbre della malattia che non ci permette di riconoscere la nostra vera identità. Chi è un cristiano?

La guarigione della suocera di Pietro risponde proprio a questa domanda. Il credente è colui che risorge grazie alla cura di Dio, non a caso il verbo utilizzato nell’azione del prendere per mano la suocera febbricitante è lo stesso che l’evangelista utilizzerà per parlare della resurrezione di Gesù. In questa rinascita si innesta la scoperta di essere chiamati a servire.

Essenzialmente ogni cristiano che voglia essere felice deve riscoprire in sé la chiamata al servizio.

Vivere con passione quello che si è scelto smettendo di andare alla ricerca di una finta realizzazione nel continuo confronto con la vita degli altri, è il primo servizio che dobbiamo a noi stessi. Sicuramente può diventare anche la forma di servizio migliore che possiamo mettere a disposizione degli altri se riusciremo a capire che la vita concede a tutti la possibilità di realizzarsi pienamente in qualcosa, ma non in tutto.

Sentire che la vita serve a qualcuno apre la possibilità di giocarsi l’esistenza nel modo migliore, proprio come nel tennis, dove imparare a servire vuol dire aprirsi la possibilità di giocare il game in modo vincente. Tutto in una parola: servire.

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