Il primo giorno della settimana (dopo gli altri)

Il primo giorno della settimana (dopo gli altri)

Per la domenica di Pasqua si poteva scegliere un brano più convincente (Gv 20,1-9), un brano che parlasse esplicitamente dell’apparizione di Gesù, magari che sottolineasse con forza e sicurezza la presenza del maestro in mezzo ai suoi discepoli. Invece ci viene consegnato soltanto un sepolcro vuoto, l’angoscia di Maria, la corsa di due discepoli, i teli posati là con il sudario avvolto in un luogo a parte. Nulla di più di questo. Eppure viene sottolineato che il discepolo amato, entrando dopo Pietro, vide e credette: vede i segni di un vuoto e inizia a credere nella resurrezione che dona il pieno della vita. Si tratta di una fede in cammino, manca infatti ancora la comprensione della Scrittura, ma è comunque una fede sincera, mossa dall’amore che il discepolo ha sperimentato e vissuto nella sua vita insieme a Gesù.

Non tutto è chiaro e nulla è certo, eppure il vuoto non può fare paura a chi ha fatto esperienza dell’amore. Abbiamo già uno strumento potente di fronte alla possibilità della morte: questo strumento si chiama amore. Vedere e credere rappresentano un binomio fondamentale nel vangelo di Giovanni: in realtà non si tratta di un vedere generico, ma di riconoscere i segni del passaggio dell’amore di Dio. I teli e il sudario potrebbero dire semplicemente di un corpo trafugato, ma per chi ha imparato uno stile, per chi è stato oggetto di un amore capace di stile, quei segni parlano di una storia che continua, di una vita che non muore, di un Dio che si prende cura del Figlio senza abbandonarlo. Un’apparizione spettacolare, magica, fatta di potenza e forza che costringe a credere, sarebbe stata in netto contrasto con tutto lo sviluppo del vangelo e con l’esito finale scelto da Gesù stesso: non si può vivere e morire secondo lo stile dell’amore e risorgere diversamente. Per essere credibile fino in fondo e per rendere credibile gli esiti dell’amore vissuto dagli uomini, Dio non può rinunciare al suo stile, neppure di fronte alla morte, neppure nell’attimo della resurrezione.

Per il momento Gesù rimane il grande assente, ma il vuoto del sepolcro, se animato dal desiderio di chi ama, è lo spazio necessario per accogliere tutte le successive apparizioni: Gesù non può manifestarsi a chi non desidera incontrarlo, ma vuole tornare a chiamarci per nome, come farà con Maria, per renderci sicuri della sua fedeltà alla vita, alla sua e alla nostra vita.

Se non abbiamo la pazienza di coltivare il desiderio di sentirci nuovamente amati, non la nostalgia che ci spinge soltanto a guardare al passato, ma quel desiderio che ci invita a vedere e a scegliere di credere oggi, smettiamo di essere persone e credenti in cammino, rischiamo di fermarci soltanto al sepolcro vuoto senza avere il coraggio di entrare. Ma se non entriamo e non vediamo con i nostri occhi come potremo riconoscere lo stile di Dio? Come potremo rileggere la nostra stessa storia personale alla luce di questo stile?

I segni che il Triduo pasquale ha seminato in questi giorni, attraverso la Scrittura e i gesti della liturgia, volevano portarci proprio al limite del sepolcro vuoto, al limite della decisione personale di entrare e vedere, oppure di ritornare sui nostri passi avendo deciso che quanto raccolto lungo la strada fosse soltanto frutto dell’illusione: un catino per lavare i piedi, il pane e il vino condivisi, la croce, un cuore aperto che versa acqua e sangue, i teli e il sudario, un sepolcro. Cosa rappresentano per me? Cosa rappresentano per noi?

Se li sappiamo leggere lungo la traiettoria che li unisce e che ci porta a dare un nome al volto di Dio, allora diventano l’inevitabile trampolino di lancio per credere alla resurrezione; se li vogliamo leggere insieme, allora diventano il cuore di una vera esperienza ecclesiale che ha il nome di comunità.

Perdere questa occasione vuol dire cedere ancora una volta ai rigurgiti del nostro egoismo, pensare che tutto debba sempre risolversi nei limiti di quello che riusciamo a capire e a gestire con le nostre sole forze: quanto di più lontano dallo stile di Dio.

I giorni che ci preparano a questa domenica di Pasqua sono giorni necessari a tutti noi per fare allenamento, per prepararci alla corsa decisiva, quella che Pietro e il discepolo amato hanno vissuto in quel primo giorno della settimana, la stessa che anche noi siamo chiamati a vivere. Potrà capitare di avere momenti difficili, come in ogni allenamento, momenti in cui non ci sentiamo all’altezza, in cui ci sembra di non farcela, momenti in cui facciamo esperienza di tutto il nostro limite, ma sarà proprio lì che avremo l’occasione vera di fare crescere il desiderio necessario a tenere in corsa la nostra vita oltre l’ostacolo ultimo della morte.

Buona Pasqua!

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