Potatura

Potatura

Al centro del vangelo di questa quinta domenica di Pasqua, anno B (Gv 15,1-8), troviamo l’immagine della vite e dei tralci. Al cuore del discorso di saluto ai suoi, Gesù nell’ultima cena, offre una visione di come dovrà strutturarsi la relazione con lui. Rimanere in lui vuol dire non solo accogliere la sua parola, vuol dire anche accettare che questa parola eserciti un’azione di potatura che, come per i tralci innestati alla vite, è necessaria affinché la pianta porti più frutto.

L’ascolto della Parola crea già le condizioni per un’appartenenza che per diventare davvero generativa deve farsi piena e matura: se i tralci rimangono attaccati alla vite possono essere potati e resi portatori di frutto, in caso contrario, vengono tagliati e gettati via per essere buttati nel fuoco. Diventare discepoli vuol dire vivere della relazione continua con lui; perdere questo legame, credere di poter fare da soli dopo averlo conosciuto, pensare di poterci dire comunità e chiesa tenendo sullo sfondo un riferimento leggero, quasi trasparente con chi questa chiesa l’ha voluta e pensata nella comunione e nel dono dello Spirito, fa di noi una realtà di cui si può fare tranquillamente a meno.

Rimanere in lui vuol dire manifestare la gloria del Padre, cioè portare molto frutto e compiere le opere di Dio, esattamente come il Figlio. L’opera principale è quella di diventare discepoli del Figlio, credere in lui e in chi lo ha mandato. Qui l’annuncio del vangelo di Giovanni sembra trovare una sorta di chiusura: rimarrà da vivere e sperimentare tutta la parte che rende vero questo discorso, ma le basi ci sono già tutte. Lui è la vite, il Padre l’agricoltore e noi i tralci che, per portare frutto, qualsiasi genere di frutto nella vita, dobbiamo rimanere attaccati alla pianta e accettare di lasciarci potare. Questo è il tema scottante: non è facile vivere le potature, riconoscere che nella vita ci sono delle apparenti sconfitte, delle cose che ci mettono in discussione, che ci fanno soffrire, ma che sono necessarie alla nostra piena realizzazione. Non le scegliamo noi, spesso capitano anche contro la nostra volontà, ma chiedono di essere vissute. Ovviamente non si sta parlando della ricerca volontaria di cose che ci facciano stare male per la nostra edificazione: il masochismo non appartiene in nessuna forma all’annuncio del vangelo. Si tratta di accettare la logica di una parola che umilia continuamente il nostro egoismo, senza sconti e senza concessioni: questo ci fa stare male, perché sembra negare la possibilità di una nostra affermazione, ma in realtà è ciò che più di ogni altra cosa ci permette di diventare persone aperte alla vita, capaci di portare frutto.

Andare contro se stessi e il proprio desiderio egoistico di conservazione e affermazione è qualcosa di innaturale che diventa possibile solo se la tua vita è radicata in qualcosa che ti alimenta davvero e ti sostiene. Se il tronco a cui sei attaccato è forte, allora continua a alimentarti anche se rimani ferito dal taglio della potatura, anzi, proprio a partire da questa mancanza ti sosterrà con ancora più linfa e vigore.

Abbiamo appena celebrato il 25 aprile, per il nostro paese giornata di liberazione dall’oppressione nazifascista. Non importa se ci fu chi, per solo opportunismo, scelse di salire sul carro dei vincitori: rimane il fatto che il movimento di liberazione permise al nostro paese di ritrovare dignità e forza di fronte alla tragedia della guerra e della dittatura, quella dignità che ha poi trovato espressione valoriale nella ricchezza della nostra costituzione.

Mi piace sottolineare che ci fu chi la dignità non la perse mai, accettando potature e limitazioni straordinarie, senza mai perdere il legame con la vite a cui chiedere forza: vorrei ricordare il contributo di chi già, durante il Ventennio, non accettò di rinunciare alla propria identità di giovane credente: il gruppo scout delle Aquile Randagie continuò le proprie attività in segreto, nonostante il divieto di ogni forma di associazionismo che non fosse quello fascista. Proprio da questo straordinario gruppo di ragazzi nascerà, durante gli anni della Resistenza, l’esperienza di OSCAR (Organizzazione Soccorso Collocamento Assistenza Ricercati), realtà che, ispirata ai più genuini principi scout, decise di combattere attraverso una forma di resistenza disarmata e passiva: a loro tanti dissidenti politici ed ebrei devono la vita; grazie alla rete di espatri verso la Svizzera che con efficienza riuscirono a costituire a rischio delle proprie stesse vite, si fecero promotori di una delle più attive e funzionanti organizzazioni di sostegno a profughi e ricercati: nei 20 mesi di occupazione nazista si contano 2166 espatri e la stampa di circa 3000 documenti falsi.

Un esempio luminoso di resistenza a cui, nel 2019, un bel film ha reso giustamente un po’ di notorietà in più. Un esempio di come il rimanere radicati in lui porta sempre molto frutto, anche nelle condizioni più estreme, anche quando sembra che la potatura metta a rischio perfino la vita stessa della pianta.

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